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I classici della letteratura continuano a sollecitare un dialogo che va ben oltre le contingenze storiche in cui sono nati. Ciò vale anche per Un anno di scuola di Giani Stuparich, pubblicato per la prima volta in volume nel 1929. Il racconto, in parte autobiografico, ricorda le reazioni suscitate dall'arrivo di una ragazza, Edda Marty in una classe, ovviamente tutta maschile, dell'ultimo anno di liceo. In virtù di una legge appena approvata, lei aveva potuto rovesciare il suo destino di donna, superando l'esame di ammissione per poi iscriversi all'Università.

Il tema svela subito la sua profonda attualità, nonostante le donne abbiano ormai ben superato quella soglia. Giani Stuparich infatti, nel raccontare una vicenda ambientata al nostro liceo classico Dante nel 1909, mette in campo qualcosa che si ripropone in tutte le generazioni: la giovinezza, con i suoi ideali, condivisi da un gruppo di allievi che insieme stanno valicando la loro "linea d'ombra". Ora come allora li unificava uno spirito di gruppo, il piacere di stare insieme anche nel tempo libero, mentre in ciascuno cresceva, sotterranea, un'inquietudine sottile nata dalla paura di affrontare pulsioni davvero difficili da razionalizzare quali sono prime esperienze d'amore. Lasciamo stare le scelte stilistiche e le ascendenze letterarie che hanno fatto di questo un gioiello della letteratura triestina, e vediamo come il narratore riesca a suscitare ancora empatia nel lettore: si tratta di un gruppo di ragazzi che hanno condiviso le stesse esperienze di formazione, seppur con alle spalle situazioni familiari e caratteri diversi. Dunque di fronte alla stessa problematica reagiscono in maniera discorde. Perché è ovvio che più d'uno si innamora della ragazza, intelligente e disposta a cedere al sentimento, ma decisa a difendere con tutti i mezzi la propria autonomia e il proprio futuro: c'è chi arriva a compiere un gesto disperato per attrarre la sua attenzione, chi si accontenta di gesti d'amicizia, chi sa rinunciare a un insperato rapporto d'amore perché comprende che altri sono i desideri della donna. Lo sventagliarsi di ipotesi comportamentali così diverse credo si ripeta ancor oggi; del resto basta leggere la cronaca, per verificare come non sia facile rinunciare a un rapporto inteso come possessivo. Ovvio che nel frattempo le ragazze come Edda Marty si sono materializzate ovunque, ma lo scrittore non ne aveva fatto un caso sociologico, bensì antropologico. Erano, quelli, gli anni della rivoluzione industriale, che aveva cambiato valori e modelli di vita, portando a situazioni di conflittualità economiche e politiche tali da porre le premesse per lo scoppio della Grande Guerra. Le donne si sono potute emancipare anche perché il mercato, nel cui nome si compiono per l'appunto le scelte economiche e politiche, aveva bisogno del loro lavoro, a casa e fuori casa. Devo dire che lo scrittore ha colto l'ineludibilità di questo processo, e che ne è un po' spaventato. Infatti descrive la protagonista come straniera, seppur di rango: veniva da Vienna, ed era mezza tedesca e mezza slava. A Trieste, porto dell'impero asburgico, ciò poteva essere abbastanza comune, ma si trattava di una donna intelligente e decisa i cui sogni non coincidevano con quelli delle ragazze borghesi che frequentavano un'altra famosa scuola triestina, il Liceo femminile, esplicitamente citato come modello negativo da Edda. L'archetipo antropologico femminile avvertito con tremore dal maschio infatti è la donna dominatrice, che ai primi del Novecento spopolava nei testi letterari e cinematografici come femme fatale: qui Stuparich accanto al richiamo erotico che la ragazza provoca, indaga sull'aspetto caratteriale, avvertito giustamente come altrettanto insidioso per la supremazia maschile. L'altro archetipo che nella della nostra cultura ha fin dalle origini spaventato è quello dello straniero, divenuto il capro espiatorio delle nostre insicurezze. Credo che non sia difficile cogliere differenze e analogie con l'oggi, dal momento che nelle nostri classi la presenza dell' "altro" si propone sempre più spesso. E siamo ben consapevoli che sempre più frequente sarà la presenza di culture nate in luoghi lontani e ora entrate a far parte della nostra vita quotidiana. Certo, Stuparich rassicura il lettore perché, accanto alla donna emancipata, la straniera che alla fine capisce, ama, e per questo lascia andare verso il suo destino, pone l'altro archetipo femminile, quello materno, salvifico deus ex machina. Il confronto tra le due donne è esemplare, ed è la madre, col suo potente egoismo, a vincere la sfida. Come in molti altri romanzi dello scrittore triestino, è lei il nume tutelare della famiglia, e con il suo continuo appello al senso del dovere può aiutare l'adolescente a trovare la strada giusta nella vita. Le madri di oggi hanno perso l'aspetto matronale che si confaceva a un ruolo antico, si sono avvicinate per tanti aspetti al modello maschile, ma sono comunque depositarie di un sapere basato su componenti anche emotive, frutto della sensibilità di quel corpo che ha dato la vita e che è il luogo dell’armonia prenatale e della felicità delle origini. È probabile che la madre ancor oggi, seppur con manifestazioni diverse, comunichi attraverso modalità empatiche, sentendo senza bisogno di spiegazioni le emozioni dei figli, gioiose o dolorose che siano. Forse non è un caso che, se non suscitano empatia, anche i testi letterari rimangono inerti, e passano senza lasciare traccia: ma se lo fanno continuano ad intrigarci.

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