Nell’anno scolastico 1904-1905 di Gorizia, Biagio Marin e Carlo Michelstaedter frequentavano entrambi lo Staatgymnasium, uno in quarta e l’altro in ottava ginnasiale, ossia l’ultimo anno di liceo. Il poeta di Grado ha ricordato più volte il loro incontro, avvenuto in una mattina di maggio davanti a una fontanella d’acqua durante una pausa delle lezioni. Carlo Michelstaedter era bello, elegante, autorevole, tra i migliori allievi della scuola, e quel giorno indossava il suo cappello grigio alla spagnola, tondo a tese pari, mentre discorreva appartato con i suoi due amici storici, Nino Paternolli ed Enrico Mreule. Biagio Marin aveva per lui una profonda reverenza, come era dovuto agli “anziani” e agli “eminentisti” della scuola. Si era appena avvicinato alla cannella dell’acqua ma, vedendo che Carlo stava sopraggiungendo, si scostò per lasciarlo bere per primo: volle assolutamente cedergli il posto. Allora Carlo, colpito dal rispetto che il più giovane compagno aveva dimostrato di avere per lui, sorridendogli, si tolse il cappello e gli chiese di reggerglielo. Poi, vista la deferenza che il giovane Biagio gli aveva dimostrato, gli diede un buffetto, dicendogli: «Ora tocca a te, bevi».
Carlo Michelstaedter era nato a Gorizia il 3 giugno 1887, ultimo di quattro figli di un’agiata famiglia di origini ebraiche. Il padre, che dirigeva l’ufficio goriziano delle Assicurazioni Generali, era un uomo colto, solo formalmente ligio alle tradizioni ebraiche, in realtà laico, un tipico rappresentante della borghesia materialistica dell’Ottocento, come dirà il figlio, che taccerà di ipocrisia l’intera sua classe sociale d’appartenenza. Allo Staatgymnasium Carlo aveva assimilato le lingue classiche, il latino e il greco, ed era rimasto affascinato dalle materie filosofiche. Nella soffitta di Nino Paternolli, insieme a Enrico Mreule, discuteva di Schopenhauer, Ibsen, Tolstoj, Leopardi, ma anche di Petrarca, del Vangelo, delle Upanishad, di Platone e dei filosofi presocratici.
Scriveva poesie, ritrovate sui due quaderni che durante le persecuzioni razziali vennero copiati in fretta dalla sorella Paula e consegnati a persone di fiducia nel timore che venissero distrutti dalla violenza nazista. Dunque già nel 1900-1901, quattordicenne, cominciava a riflettere sulla vacuità delle ambizioni di una borghesia affamata di denaro e di potere. A Mreule, il compagno di classe che chiamerà Rico nel suo Dialogo della salute, si rivolgeva esponendogli le sue riflessioni. In questa prima poesia il piglio era combattivo, proprio di un ragazzo esuberante, a volte indisciplinato, che amava le lunghe pedalate in bicicletta, emblema di vitalistica libertà, condizione su cui scrisse esametri giocosi e non esenti da attacchi al conformismo dominante. Intanto spostava l’analisi anche su di un sé in piena crisi esistenziale e religiosa, come rivela l’autobiografica Se camminando vado solitario, una poesia pregna di echi leopardiani e petrarcheschi, che delegava all’amore, qui per una certa Elsa, il compito di superare quel dubbioso momento. Era il 1905: La scuola è finita e Alba. Il canto del gallo sembravano tuttavia mitigare il suo pessimismo di fondo, con la loro gioiosa aspettativa di una nuova vita.
Carlo si era iscritto a Matematica a Vienna, ma poi preferì gli studi umanistici che lo portarono a Firenze, dove frequentò l’Istituto di Studi Superiori. Qui conobbe, fra gli altri, compagni di studio come Gaetano Chiavacci, futuro filosofo e pedagogista e in seguito curatore delle sue Opere, e Vladimiro Arangio- Ruiz, che diventerà filosofo e grecista di fama. Parlava della sua vita fiorentina in numerose lettere alla sorella Paula, alla madre, agli amici goriziani, scriveva recensioni sugli spettacoli teatrali, raccontava delle sue escursioni e, come faceva già al ginnasio, continuava a ritrarre con tratto espressionistico, spesso caricaturale, i vari tipi umani in cui s’imbatteva sia nei mesi di studio che nei periodi di vacanza al mare e in montagna.
Aveva diciotto anni, frequentava concerti, si appassionava alle conferenze e alle lezioni universitarie, raccontava l’impressione, positiva o negativa, che gli avevano fatto i suoi docenti. E provava anche le sue prime esperienze sentimentali. Le poesie di questo periodo infatti sono in gran parte dedicate a una donna: innanzitutto a Nadia Baraden, l’amica russa che ebbe su di lui una certa influenza culturale e morale, morta suicida nel 1907; poi, a Iolanda De Blasi. Ma è con Amico, mi circonda il vasto mare, composta a Pirano nell’estate 1908 e destinata ad Argia Cassini, una coetanea poi vittima delle persecuzioni razziali, che iniziava per Carlo una nuova stagione poetica. Affascinato da Ibsen, vedeva nella sua Donna del mare la rappresentazione perfetta della necessità di scegliere tra una banale quotidianità borghese, e l’inseguimento di rischiosi miraggi. Ovvio che Carlo preferisse l’incognita rappresentata dal mare. Se già Iolanda era vista come “amica della profondità”, è con Argia, il cui nome significa Pace, che l’abisso cominciava ad esercitare su di lui un richiamo forte. Nel 1909 un secondo evento luttuoso segnava la sua vita, il suicidio del fratello Gino, di dieci anni più vecchio, da tempo emigrato a New York. Nell’ottobre dello stesso anno l’amico Enrico Mreule partiva per l’Argentina, quasi a voler mettere in pratica la scelta filosofica di condurre una vita lontana dai canoni borghesi. Questa partenza veniva segnata da un evento significativo, una sorta di passaggio del testimone: Rico consegnò a Carlo da la pistola che portava sempre con sé.
Michelstaedter nell’autunno 1910 era tornato a Gorizia, a terminare la tesi di laurea, che avrebbe a breve discusso, sui concetti di “persuasione e di rettorica” in Platone ed Aristotele, argomento assegnatogli dal docente di letteratura greca Girolamo Vitelli. Fatale che, dati i suoi interessi filosofici, provasse a misurare la sua vita con le teorie che andava indagando. Probabilmente voleva in qualche modo trovare la sua via alla “persuasione”, rinunciando alle tante illusioni di felicità borghese che ormai non poteva non considerare fallaci. Affiancava al lavoro di tesi la composizione di alcuni discorsi, tra cui il Dialogo della salute, e continuava a scrivere Poesie. In una, Il canto delle crisalidi, indicava in queste larve metamorfiche il simbolo di un possibile mutamento anche dell’essere umano, portando sul piano dell’astrazione metafisica l’antica contrapposizione tra le due principali pulsioni, l’Amore e la Morte. Infiniti sono i rimandi filosofici che lo portavano a pensare al suicidio come estremo rifugio: teorizzava infatti che solo scansando la vita l’uomo avrebbe potuto resistere al fascino dei falsi valori, perché «non chiede di essere ma è». Carlo sapeva che non era possibile cambiare le cose in terra, luogo del compromesso, né guardava al cielo per lui, filosofo laico, irraggiungibile. Ha trovato nel mare, simbolo di una navigazione esistenziale la cui rotta poteva portare alla pace dell’abisso, il terzo regno, da cui l’uomo è stato esiliato, e al quale avrebbe voluto tornare. Ma sapeva bene che questa scelta implicava il ripudio della propria natura terrena. Nei Figli del mare, scritta nel settembre 1910, il poeta si immaginava ormai metamorfizzato in pesce, e la sua donna, Xenia, la straniera, trasformata in sirena. È questa creatura, infatti, la dedicataria delle sue ultime poesie. Intanto il suo isolamento era diventato pressoché totale e lo portava a vivere come un asceta. Aveva comunicato al padre che dopo la tesi «non avrebbe fatto il professore, ma che appena laureato sarebbe andato al mare». Il 17 ottobre 1910, dopo un diverbio con la madre, impugnò la pistola lasciatagli da Enrico Mreule1 e si tolse la vita.
La sua opera più importante resta la sua tesi di laurea La persuasione e la rettorica, impeccabile ed originale sotto l’aspetto filologico, eppure così vicina al registro romanzesco dei giovani scrittori di quegli anni, in dichiarata crisi d’identità. Il decollo industriale italiano infatti aveva scomposto gli antichi valori di solidarietà e di vita parsimoniosamente volta al lavoro e alla famiglia propri di una borghesia propositiva che, divenuta classe egemone, si era fatta arrogante e desiderosa di conquistare spazi sempre più ampi. Il denaro e il potere erano i valori supremi, e anche gli scrittori, per sopravvivere, avrebbero dovuto farsi gazzettieri, romanzieri seriali, sceneggiatori cinematografici, comunque operatori capaci di produrre testi facilmente smerciabili a un pubblico allargato. I giovani intelligenti d’Italia, come li definiva Slataper in un articolo sulla rivista fiorentina «La Voce», capivano che a differenza del periodo risorgimentale, quando scrittori ed artisti erano stati chiamati a fungere da cassa di risonanza per creare il consenso alla formazione d’Italia, ora venivano guardati con sospetto per la loro resistenza ad aderire a quel nuovo progetto che alienava nel denaro ogni parvenza d’umanità. Generale era infatti la deprecatio temporum verso i valori imposti dalla borghesia affarista e fatti propri da una classe politica interessata a veicolare un’immagine moderna ed efficientista dell’Italia, tecnologicamente ed economicamente lanciata alla conquista dei mercati: il liberalismo di Maffeo Pantaleoni, le teorie delle élites di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, il culto dell’homo faber di Mario Morasso, la necessità, rilevata da Corrado Gini, di rinforzare geneticamente la classe dirigente, lo studio di Napoleone Colajanni sulle forme più moderne di convivenza civile, le diverse proposte protezionistiche di Leone Carpi e Pasquale Turiello, e così via, sottolineavano unanimemente la necessità di consolidare più che la tradizione culturale, l’immagine dell’Italia del lavoro e della produzione. Gli scrittori si rendevano conto che, per lasciare un segnale utile a un lettore che volesse crescere culturalmente, dovevano rinnovare innanzitutto il proprio linguaggio, nel nome di quell’Italia del lavoro che stava cambiando status sociali e valori morali. Nel momento in cui si impegnavano a guidare il deréglement epocale, i giovani scrittori non si proponevano più come demiurghi, o vati, allaC o alla D’Annunzio, ma come operatori culturali. Slataper, Boine, Serra, Papini, Soffici parlano di «lavoro» e si interrogano sul senso da dare a questo termine. Michelstaedter per questa parte non faceva che allinearsi con le loro argomentazioni che si abbandonavano ad analisi coscienziali, celebravano l’impeto della giovinezza sulla prudenza dell’età adulta, esaltavano la vita sulla forma, la libera ricerca di sé sull’adeguamento alle convenzioni sociali. Entrava così in crisi proprio il genere romanzo, almeno come era stato concepito fino ad allora, con la sua struttura piana, il sistema di personaggi ben articolati, una logica consequenziale: al di là di suggestioni ideologiche pur assai diverse tra loro, tutti esprimevano soprattutto il loro disagio, su cui si interrogavano: «O allora? Scriviamo: ma per far chiaro dentro di noi […]; ma intanto sarebbe utile spalancare i vetri e anche la porta perché ci tiri (dalla campagna, Papini) una buona ventata di tramontana […]. Ma anche l’arte ha una moralità tutta sua, specifica, al di sopra della morale umana, perché la supera e la precede» proclamava Slataper nel suo famoso articolo-manifesto2. Capiva, con gli altri, che andava rifondato quel genere così caro alla borghesia ottocentesca desiderosa di veder rappresentato attraverso il romanzo, come dirà Boine, in «idilli il mondo, a quadratini, a disegnetti ordinati»3. E dunque il triestino non aveva dubbi nel confermare a Soffici che «il nostro genere sarà probabilmente il diario». Anche Jahier era d’accordo: «La nostra arte è autobiografica: essendo fermi a un bivio, pieni di solitudine e di aspettazione per colui che forse cammina tra noi e svelerà la sua faccia nel suo momento»4. I diversi “io” narranti5, in luogo di un racconto ordinato e concluso, depositavano così confessioni, dialoghi con se stessi e con altri ipotetici interlocutori, frammenti di una prosa che enfatizzava, in rapporti diversi, l’iteratività, l’oscurità, l’interrogatività, l’eterno ritorno, il ritmo ditirambico, la rivolta dell’io contro la morale del gregge.
Michelstaedter, va inquadrato in questo contesto: «So che voglio e non ho cosa io voglia» è, appunto, l’attacco della Persuasione, che va letta anche in continuità con quanto scritto prima, nelle lettere, nelle poesie, nei dialoghi, ecc. La mancanza di senso, che tutta quella generazione denuncia, per lui andrebbe dunque risolta con il possesso di sé stessi, e con l’abbandono di tutti gli adescamenti della civiltà dei consumi, anche culturali. Anche Slataper pensava di doversi scrollare di dosso la cultura borghese e di suggere dal barbaro «slavo» l’energia capace di rinnovare il proprio latino sangue esamine. Michelstaedter aveva espresso un «desiderio formidabile di fare il cow- boy nelle Pampas» nella lettera a Enrico del 14 novembre 1907. Certo la via di fuga è un’ipotesi, ma forse troppo semplice per chi sta invece cercando di trovare una strada molto più radicale per giungere alla “persuasione”. Non la fuga ma il consistere era l’obiettivo irrinunciabile. Per riuscirci ha provato ad avvicinarsi al sapere di Padri, depositari di un credo originariamente sciolto dalle categorie logiche occidentali, formulate, dopo Socrate, da Platone e Aristotele, i cui concetti di “persuasione” e di “rettorica” avrebbero dovuto essere i veri soggetti della tesi6:
Tu sai che la ragione dell’antisemitismo filosofico (Schopenhauer e Nietzsche) è il razionalismo della religione e della letteratura ebraica (pensa al pentateuco e a Spinoza!!) e la mancanza dell’elemento mistico nelle menti ebraiche (Nietzsche dice «elemento dionisiaco»; quello che è distrutto da Socrate [...]. Ora io sono convinto (purtroppo anche per esperienza interna, come dice De Sarlo) che l’appunto è giusto e condivido fino a un certo limite [...] il biasimo; tanto più mi meraviglia l’esistenza d’una intera letteratura cabalistica ebraica, e una διαδοχή di taumaturghi che finisce (per queste ragioni) col mio bisnonno, il rabbino Reggio, detto il Santo. Io voglio sapere qualcosa di più preciso su quella letteratura cabalistica, specialmente sulle sue origini, poi voglio farmi consegnare dall’archivio i resoconti protocollati di tutte le sedute in cui quel mio bisnonno compì solenni atti di purificazione con mezzi cabalistici, (poi se possibile risalire più su); peccato che siano scritti in ebraico, ci dovrò faticare per capirli bene, ma papà m’aiuterà, spero.
Si tratta di una lettera a Gaetano Chiavacci del 22 dicembre 19077. La ricerca è stata anche fatta, come risulta in una successiva allo stesso interlocutore, ma qualcosa non l’aveva convinto. Provò allora a recuperare i suoi ricordi adolescenziali. Le sue pagine su Tolstoj, confluite in un articolo del «Corriere friulano» del 18 settembre 1908, suggerivano che lo scrittore russo era da lui visto come la reincarnazione di un profeta biblico «con la candida barba e i capelli agitati dal vento e la faccia volta al sole, ritto e solo in mezzo alla pianura sterminata»:
Tutta la vita di Leone Tolstoi non è che una lenta e faticosa evoluzione dell’uomo assiepato dai principi di classe, circondato da seduzioni e attrattive mondane d’ogni genere- all’«uomo», all’uomo libero nel suo unico amore verso tutta l’umanità, libero nella ferma volontà di non aver bisogno delle fatiche degli altri; così vive Tolstoi perché così nella sua ininterrotta speculazione filosofica è giunto ad affermare che l’uomo vive. Soltanto negli antichi filosofi della Grecia si ritrova questa uniformità tra pensiero e vita.8
Tolstoj nobile e possidente, che non esitò per il suo credo morale a farsi contadino, antimilitarista, pacifista e cristiano critico verso la Chiesa, poteva essere visto come esempio concreto di persuaso, che fa tutt’uno della vita e del pensiero. Ma poi il giovane filosofo comprendeva bene che non bastava farsi contadino, come suggeriva un passo della Rettorica, redatto in I persona:
Io ho lavorato il campo o approfittato a mio vantaggio del sole, della pioggia, dell’aria, della terra, ho ucciso gli animali nocivi, ho addomesticati quelli che mi potevano servire. Ho colto il frutto della terra violentando la pianta; - ho costrutto un tetto a difesa delle intemperie e delle fiere, vincendo lo spazio e l’inerzia e la durezza del sasso,- mi sono fatto le vesti, le armi, gli utensili; ho cacciato nel bosco la selvaggina, ho tagliato la legna per cucinarla nel mio focolare e mangiar questa e il frutto del campo a mia maggior gloria.9
Il racconto continuava mostrando cosa succede quando sul campo arriva un altro uomo: la lotta per la «sicurezza di poter violentare la natura». Dunque la “rettorica” insidia qualsiasi forma di vita associata. L’io del persuaso alla ricerca dell’Assoluto si rivolge al tu della condizione umana dipendente dai meccanismi d’integrazione nella società civile: «Il senso delle cose, il sapore del mondo è solo pel continuare. Esser nati non è che voler continuare. Gli uomini vivono per vivere, non per morire»10. E d’altra parte «un peso pende ad un gancio, e per pender soffre che non può scendere: non può uscire dal gancio, poiché quant’è peso pende, e quanto pende dipende»11. Che fare allora? Non certo, come aveva fatto Platone, escogitare un mechánema, una macchina volante per alleggerire il peso del mondo e giungere nelle vicinanze dell’assoluto. Platone era rimasto a metà strada, sospeso tra la contemplazione dell’Idea e la nostalgia della terra, mentre Aristotele aveva voluto far scendere l’areostato sul solido suolo amico dove ha potuto edificare i suoi sistemi, purtroppo privi finanche della nostalgia per quel mondo intelligibile perduto. La metafora michelstateriana è chiara. Si trattava di invertire la rotta e puntare senza mezze misure verso l’Assoluto.
Un “Io” giovane, irruento, anticonformista, a volte cinico è l’autore di un testo che relegava i problemi filologici nelle Appendici critiche e che affrontava il rapporto col “Tu”. Infatti, nella ricerca della via alla “persuasione” prevedeva un forte sentire che contrasta con quanto preme dal di fuori. Ingombrante nei tre capitoli dedicati alla Persuasione, l’”Io” si confronta con i “Tu” del senso comune. L’andamento narrativo è quello di un Bildungsroman che però, molto novecentescamente, non prevede l’integrazione dell’”Io” nei valori sociali, ma spinge a riflettere sui modi in cui poter coniugare antiche e moderne filosofie dell’essere con la vita: Parmenide, Eraclito, Empedocle, l’Ecclesiaste, Cristo e Socrate, e, sottotraccia, Schopenhauer, Nietzsche, Marx, Weber, Mach e quant’altro poteva essere stato scritto in anni di rifondazione di un sapere che pescava le sue basi teoriche nel relativismo, nell’inconscio, nella consapevolezza della storicità dei presupposti relativi alle scienza umane. Insomma, di fronte alla costruzione di un sapere che organizzava la vita e la mente in modo da indirizzare culturalmente le masse a condividere i valori utili al sistema organizzato, Michelstaedter tornava alle origini sapienziali della sua cultura, insistendo sulla vanità di seguire la via indicata e ricercata da tutti, per cercare piuttosto la propria realizzazione nelle cose e nelle azioni che contano per la propria personale realizzazione: «O sai cosa fai? e quello che fai, che è tutto in te nel punto che lo fai, da nessuno ti può essere tolto? Sei persuaso o no di ciò che fai? [...] Allora io ti dico: domani sarai morto certo» 12. Splendide lettere al padre, alla madre, a Paula testimoniano che ciò che scriveva lo sentiva come problema esistenziale. Poi i tre capitoli sulla palude della “rettorica”, dove l’”Io” si defila quasi del tutto. Filosofie, diritto, linguaggio scienze, per non parlare dell’etica e della politica, concorrono alla ricerca della sicurezza dei singoli e della specie. Dunque la via alla “persuasione” si impantanava nella palude dell’apparire, dell’avere, del voler continuare. Le immagini metaforiche del peso che scende, del cloro che si unisce all’idrogeno, del bue che rumina, del filosofo in areostato e così via, fanno toccare con mano la difficoltà di sottrarsi alla “rettorica” dell’essere per il domani, mentre la “persuasione” si deve condensare nell’oggi, nel vivere senza la progettualità del domani, nel bruciarsi nell’attimo propizio:
Il silenzio della persona arrivata all’ultimo dolore: della nullità del proprio dolore; come dice Leopardi di sé «fra poco in me quest’ultimo dolore anco fu spento e di più far lamento valor non mi restò». L’uomo arrivato quasi alla vita universale e che ha perduto ogni coscienza individuale. In lui vive e soffre ogni cosa dell’universo. E quando, chi sa per quale, misterioso incidente, si risveglia alla vita pare davvero che per sua bocca tutto l’universo con tutte le sue forze si levi dal dolore a un’ultima illusione orgiastica di vita libera [...]. Quando sto zitto cioè quando mi dimentico e non lavoro con la testa, mi sento suonar dentro a piena orchestra, e mi metterei a piangere o a urlare come un dannato ... se lo potessi. Ora vado a letto e ho la strana fiducia che l’orchestra intera finirà coll’annientarmi- chi lo sa? È il Nirvana- forse non sarà che il sonno e domani mi sveglierò più imbecille del solito.13
Il tono scherzoso, quello che spesso caratterizza le lettere alla sorella, non toglie che l’indicazione sia piuttosto chiara, il Nirvana, che presso il buddismo letteralmente significa «l’essere soffiato via, spento o pacato», un invito a spegnere, ottundere il percepibile. Il Nirvana non è puro nulla, ma esclusione dalla vita empirica e per questo duratura gioia ineffabile. Carlo lo modulava diversamente: «I bisogni, le necessità della vita, non sono per lui [il persuaso] necessità, poiché non è necessario che sia continuata la vita che, bisognosa di tutto, si rivela non essere vita»14. È nota l’attenzione di Carlo agli Indische Sprüche, conosciuti probabilmente attraverso Schopenhauer, che sembra proprio il suo filosofo di riferimento. Diversamente dal pensiero occidentale, la logica buddista ritiene che la conoscenza possa prodursi senza elaborare una costruzione teorica esterna alla vita. Di qui la diffidenza rispetto a tutti i “sistemi” filosofici, che Michelstaedter attacca:
Se la potenzialità si eleva sino al suo grado più alto e abbiamo la persuasione persistente e assoluta della verità, non ne può nascere che l’abnegazione del’individualità e la morte. -Il mondo dei viventi è dunque esaurito tutto dai «mistici» e dai «disonesti». Non v’è un terzo15
Naturalmente c’è vero misticismo e falso misticismo, un fatto di parole (oratoria) l’altro di insegnamento:
L’oratoria mistica che non transige -ammessa una differenza di livello fra l’oratore e il suo uditorio - diventa una «attività educatrice», non più una azione istantanea. Infatti il suo interesse non è il tale fatto imminente, ma è l’elevazione dello spirito a tal punto che di fronte ad ogni fatto esso si comporti come l’oratore stima soltanto esser giusto.16
Il “persuaso” Beethoven con la IX gli sa comunicare «il silenzio della persona arrivata all’ultimo dolore della realtà del proprio dolore»17, mentre accenna al valore della parola di Cristo, un altro dei suoi “persuasi”: «L’espressione materiale di questo è il miracolo e la profezia -il concorrere spontaneo di tutte le forze a questo nucleo eccezionale d’energia che tutte le comprende - [...] -Ma ... parabole -metodo dialettico- esempio del corpo»18.
Dopo aver affermato nel I capitolo sulla Persuasione (La persuasione) che la mancanza di senso nel mondo può essere risolta solo con il possesso di sé, dopo aver denunciato nel II (L’illusione della persuasione) che bisogna conciliare l’illusione del divenire con la verità del consistere, nel III capitolo (La persuasione) chiede al proprio “Tu”:
Questo che fai, come che cosa lo fai? con che mente lo fai? tu ami questa cosa per la correlazione di ciò che ti lascia dopo bisognoso della stessa correlazione, la cui vicinanza non è in te prevista che fino a un limite dato, sicché a te, schiavo della contingenza di questa relazione, sia tolto tutto quando a questa cosa questa correlazione sia tolta; e tu debba altra cosa cercare e in balìa della contingenza di questa metterti? O sai cosa fai? E quello che fai, che è tutto in te nel punto che lo fai, da nessuno ti può essere tolto?
Sei persuaso o no di ciò che fai? [...] Allora io ti dico: domani sarai morto certo.19
Ovvio che l’attenersi piuttosto alla consistenza fa parte della vita del gregge, che distingue il sapere dalla vita. Nell’ultima pagina della Persuasione il tu viene fagocitato dai più potenti “loro”, che parlano in maniera tanto simile a come si esprimeva suo padre, come qualunque altro padre:
«Altro è la teoria, altro la pratica».
Tu devi far un studio su Platone o sul Vangelo - gli diranno. - E perché così ti fai un nome, ma guardati bene dall’agire secondo il Vangelo. Devi esser oggettivo, guardare da chi Cristo ha preso quelle parole, o se omnino Cristo le abbia dette, o se non meglio le abbiano prese gli Evangelisti o dagli Arabi o dagli Ebrei, o dagli Eschimesi, chi lo sa...20
Mette en abyme la storia del suo apprendistato, facendo proprie le procedure della teoresi ebraica21 che cerca di giungere alla conoscenza, come dimostrerà Wittgenstein più tardi, rimodulando sapienze antiche per risignificare e risemantizzare una scienza dell’essere e della ineluttabile tragedia della vita: «quanto io dico è stato detto tante volte e con tale forza che pare impossibile che il mondo abbia ancor continuato ogni volta dopo che erano suonate quelle parole». Lo fa perché, come aveva scritto alla Paula il 9 dicembre 1906, sente il disagio di una generazione che non sa più verso che punto tendere. Lo scrive al padre il 14 giugno 1907 e lo ripete alla madre il 10 settembre 1910. Nella Persuasione sottende quanto altrove aveva scritto, ovvero che oltre al persuaso anche l’artista può essere considerato una figura capace di sfuggire ai condizionamenti «e non disperdendosi nell’atto delle continue correlazioni (possessi illusori) si afferma e prende forma e si crea da se stessa: questa è l’arte»22. Certo, l’arte nulla nasconde, né illude, e l’ha provato scrivendo poesie, facendo ritratti e autoritratti, disegni23, alla ricerca di un linguaggio che facesse stridere espressionisticamente parole e figure, annullando così ogni codice strutturato. Ma forse non era convinto delle sue possibilità espressive. Il Bildungsroman, intanto, stava giungendo all’epilogo.
Se fosse stato scritto al’interno di quella prospettiva borghese che a fine Settecento aveva trionfalmente inaugurato il genere, l’”Io” avrebbe ceduto alla “rettorica”, al “lieto” fine che, in fondo, è tale perché permette la continuità della specie (successo sociale, matrimonio e prole). Ma in questa generazione il futuro è immaginato troppo diverso dal passato per sottoscrivere il patto tra i giovani intelligenti d’Italia e un ceto egemone depositario di valori per loro condannabili. Per qualcuno il vuoto pareva poter potesse attutito dalla prova del dolore: forse la guerra per molti sarà poi, come diranno, il tentativo di scoprire altri valori. Ma quando questa era già nell’aria, Michelstaedter cercava invece la rivelazione che non sapeva raggiungere, ma senza la quale non poteva vivere. I kallopìsmata orphnes, gli ornamenti dell’oscurità, non bastavano a distoglierlo dalla ricerca dell’”esserci”, e la prospettiva di rinunciare «a consistere nell’ultimo presente» gli rendeva ancora più evanescente l’illusione di trovare pace nell’esercitare il potere, o nel primeggiare grazie alla propria cultura.
Ma non alienarsi nelle cose è difficile, anzi probabilmente impossibile. Troppe sono le riflessioni che intanto aveva depositato per non supporre che alla sottrazione alla vita, forse non ancora alla sua, avesse pensato come a una soluzione definitiva: lo testimoniano il Canto delle crisalidi, costruito sul capovolgimento chiastico dei richiami di vita e morte, per cui «la morte nella vita» dei versi iniziali si capovolge in «la vita nella morte»24 di quello finali; e la prosa de L’adulazione, compresa negli Scritti vari, che sancisce l’ineluttabile: «essere = essere libero, ma “essere libero” = non esser più»25. Non ci può essere, per lui, alcuna mediazione dialettica:
La via della persuasione non è corsa da «omnibus», non ha segni, indicazioni che si possano comunicare, studiare, ripetere; ma ognuno ha in sé il bisogno di trovarla e nel proprio dolore l’indice, ognuno deve nuovamente aprirsi da sé la via, poiché ognuno è solo e non può sperar aiuto che da sé. La via della persuasione non ha che questa indicazione: non adattarti alla sufficienza di ciò che t’è dato.26
La salvezza è dunque una scelta individuale, che unifica il dire con il fare. Sta di fatto che il 17 ottobre 1910, per motivi che probabilmente non possono essere ridotti a un litigio con la madre, e che affondano in una complessità di ragioni difficilmente districabili, prese la pistola che gli aveva lasciato Rico, che altra via alla “persuasione” aveva provata. Sul frontespizio della tesi aveva disegnato una lampada ad olio con la didascalia in greco «apesbésthen», «io mi spensi». Si era per lui concretato allora l’attimo decisivo, quello che i greci chiamavano Kairòs, il tempo propizio. Aveva anche scritto: «Solo quando non chiederai più la conoscenza conoscerai, poiché il tuo chiedere ottenebra la tua vita: fin tanto che il tuo corpo sarà, esso getterà l’ombra sulle cose così che tu non potrai vedere; quando tu non sarai avrai la possibilità di vedere»27. Si trattava di una sentenza di sapore quasi buddistico. Lo sapeva bene Rico che, quando «La fiera letteraria» gli chiese un articolo per commemorare l’amico, mandò poche righe, “solo” per dire che «Carlo e Buddha sono i due grandi risvegliati, dell’occidente e dell’oriente»28. Ma il suicidio non era certamente il gesto previsto per entrare nello stato di “nirvana”. La fine del Bildungsroman del giovane goriziano non è compresa nel testo ma sta, drammaticamente, fuori. Forse per questo ancora lo interroghiamo.
Note
1 Del rapporto tra Mreule Michelstaedter ne parla Claudio Magris nel suo romanzo Un altro mare, Garzanti, Milano 1991. nel suo romanzo Un altro mare, Garzanti, Milano 1991.
2 S. Slataper, Ai giovani intelligenti d’Italia, in «La Voce», 26 agosto 1909, I, p. 149.
3 Giovanni Boine, Un ignoto, in « La Voce », 8 febbraio 1912, IV, p. 750.
4 Pietro Jahier, La salute, in «La Voce», 25 luglio 1912, IV, p. 861.
5 Soffici con il Lemmonio Boreo (1912), Papini con Un uomo finito (1912), Slataper con Il mio Carso, Boine con Il peccato (1914) e Jahier con Risultanze in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi (1915) si chiedevano, dandosi risposte ovviamente diverse, quale potesse essere la via del loro impegno, posto che «la fede nell’attimo» di cui parlava Slataper, e la «complessità simultanea», di cui discorreva Jahier, dovevano pur conciliarsi con un principio di organizzazione e di ordine.
6 Evidentemente in questo saggio l’attenzione va alla parte narrativa della tesi, letta come compendio di ciò che altrove, in lettere o scritti sparsi, il giovane ha già depositato: insomma un diario del suo procedere di cui la parte scientifico-filologica è concentrata nelle Appendici.
7 C. Michelstaedter, A Gaetano Chiavacci, in Epistolario scelto, in Opere, a cura di Gaetano Chiavacci, Firenze, Sansoni, 1958, p.500.
8 Carlo Michelstaedter, Tolstoi, in «Il Corriere friulano», 18 settembre 1908, ora in Id., Scritti vari, in Opere, cit., p. 651
9 Id. La persuasione e la rettorica, in Opere, cit., pp.101-2.
10 La persuasione, cit., p. 33.
11 Ivi, p. 5.
12 Ivi, p. 32
13 Alla Paula, in Epistolario scelto, cit., pp. 561-2. La lettera è del 30 maggio 1909.
14 La persuasione, cit., p. 35.
15 Scritti vari, in Opere, cit., p. 770. Lo scritto, senza titolo, è dell’autunno 1908.
16 Questione centrale, [1909-1910, dagli appunti su Aristotele], ivi, p. 853.
17 A Paula Michelstaedter, in Epistolario, cit., pp. 383-384.
18 La musica fatto personale fra il musicista e chi sente, in Scritti vari, cit. p. 721.
19 La persuasione, cit., p. 32.
20 ivi, pp.139-140.
21 Piero Pieri, La differenza ebraica. Ebraismo e grecità in Michelstaedter, Bologna, Cappelli, 1984.
22 Pessimista è l’imperfetto pessimista, in Scritti vari, in Opere, cit., p. 705.
23 Biografie di Franz von Stuck e Max Klinger sono state recentemente ritrovare tra le sue carte.
24 Il canto delle crisalidi, in Opere, cit., p.370.
25 In Scritti vari, p. 818.
26 La persuasione, cit., p. 65.
27 Scritti vari, cit., p 781. Lo scritto è del principio 1909.
28 cfr. Claudio Magris, Un altro mare, Milano, Garzanti, 1991, p. 95.