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Ristampa anastatica del libro

ed. Lint, Trieste, 2001. Prima edizione: Ettore Vram Editore, Trieste, 1910)

Nota introduttiva a cura del prof. Giulio Cervani

Nato il 4 luglio 1839 a Campeglio (Udine), da Giuseppe e da Maria Maddalena Filipputti, Jacopo Cavalli studiò nel seminario di Udine, poi in quello di Gorizia. Ordinato sacerdote, nel 1863 fu inviato come cooperatore parrocchiale in Istria, prima a Portole e poi a Piemonte; infine nel 1867 a Capodistria come cooperatore e vicario corale e catechista. Dall'ambiente che prese a frequentare fu attratto alle idee del liberalismo e del patriottismo irredentistico. Fu il suo un cattolicesimo venato di buonsenso contadino, che gli faceva considerare, ironicamente, come una specie di “catastrofe naturale” la proclamazione del Sillabo (1864). L'intransigentismo cattolico e la crisi della corrente cattolico-liberale lo spinsero alla ricerca di un equilibrio fra la fede religiosa e quella politica, tanto più difficile per il particolare tono che le reciproche polemiche assumevano nella Venezia Giulia soggetta all'Austria. Il Cavalli soffrì così l'ostilità delle sfere governative, oltre che di intransigenti e di laici.

Nel 1868 iniziò ad insegnare a Trieste religione e lingua e letteratura italiana, prima nelle scuole popolari, poi nel liceo femminile del quale divenne in seguito direttore.

“Per amare le cose patrie – aveva scritto fin dall’inizio della sua attività di studioso – bisogna conoscerle, per conoscerle studiarle e renderne lo studio facile e accessibile”.

Da allora la sua vita trascorse fra l'insegnamento e le ricerche d'archivio, interrotte solo dalle vacanze estive in Carnia presso l'amico M. Gortani. Collaboratore fin dal 1867 del quindicinale istriano La Provincia di A. Madonizza, Cavalli fu in rapporti di studio e di amicizia con cultori della storia istriana e friulana (da P. Kandler ad esempio ebbe a disposizione materiali per i suoi lavori), e con linguisti e glottologi della statura di Graziadio I. Ascoli, di A. Mussafia, di M. G. Bartoli.

Gli ultimi anni furono tristi e difficili. Inviso agli “austriacanti”, che non gli perdonavano la sua Storia di Trieste d'intonazione irredentistica, vecchio e malato, riuscì a vedere l'entrata degli Italiani a Trieste. Fatto cavaliere del Regno, morì a Trieste il 28 giugno 1919.

E la Storia di Trieste raccontata ai giovanetti venne da lui composta proprio per un concorso bandito dal Comune nel 1870, che il Cavalli vinse; ma ostacoli burocratico-politici (la polizia vedeva in essa “sentimenti antipatriottici”, cioè… antiaustriaci) lo costrinsero ad emendare il testo per ottenere il permesso di pubblicazione (Trieste, 1877).

Pur colmando una lacuna di informazione storica, ma costretto nei limiti divulgativi imposti, il Cavalli non oltrepassava l’orizzonte della “piccola patria” di cui celebrava le glorie. Ignorava i progressi critici della storiografia italiana e soprattutto tedesca, in riferimento specialmente al Medioevo. Rivelava però una buona conoscenza dell’archivio comunale ed utilizzava non male quelle fonti (i volumi dei Camerari, dei Vicedomini e degli Statuti triestini), che tanta copia di materiale gli offriranno nei successivi lavori, specie linguistici.

Il lavoro del Cavalli, pur nella relativa modestia della composizione, resta insomma indicativo dei due filoni che caratterizzano tutta la produzione dello studioso: l’interesse storico-politico-erudito e quello filologico-linguistico. Appartengono al primo la ricerca sugli Stipendiari della Repubblica [veneta] rammentati nelle carte dell’Archivio diplomatico di Trieste tra il 1370 e il 1380 (Trieste, 1887) e il ponderoso volume su Commercio e vita privata a Trieste nel 1400 (ibidem 1910); al secondo filone si possono ascrivere invece i Cimeli dell’antico parlare triestino (scritti in collaborazione con l’Ascoli) nel 1879-1880, e soprattutto le Reliquie ladine raccolte in Muggia d’Istria (con appendice sul dialetto tergestino) (Trieste, 1893-94). C’è, nel lavoro su Commercio e vita privata, un tono di minuziosità espositiva, che per la mancanza di ogni intenzione di sintesi sembra relegare il Cavalli quasi al livello di cronista coevo, annotatore (o poco più) di negozi mercantili, liti, affari politici, testamenti, commerci, e … chi più ne ha più ne metta.

Comunque, dopo il lavoro sui Cimeli, spinto dall’Ascoli il Cavalli si era portato a Muggia per raccogliere dalla bocca degli anziani le tracce dell’antica parlata ladina in via di estinzione di fronte al dilagare del veneto. Se i patriarchi di Aquileia nel Medioevo avevano “friulanizzato” Muggia, ora il Cavalli si trovava a studiare la fine dell’antico “muglisano”. Riuscì a raccogliere tradizioni, leggende, superstizioni popolari, nonché un piccolo vocabolario ladino dei termini indicanti costumi, feste, mestieri, lavori agricoli, toponimi, fenomeni atmosferici, animali, piante, proverbi, secondo la tecnica appresa dall’Ascoli.

Le Reliquie ladine, apparse dapprima in forma sintetica nell’ “Archivio glottologico italiano” vennero poi edite, quale estratto dell’Archeografo triestino, con apparato critico ed appendice (come si è detto) sul dialetto triestino scomparso.

“Per due ragioni è impossibile oggi dare una storia completa del commercio antico di Trieste” annotava però il Cavalli, nel 1910, in apertura del suo volume sul Commercio e vita privata: “… la prima consiste nel fatto che i contratti si stipulavano ‘tam cum chartis quam sine chartis’; e questi ultimi non si conosceranno mai, così come rimarranno per sempre ignoti quelli conclusi a cassa pronta”. Di importanza capitale era per il Cavalli la seconda “ragione” che si riconnetteva con le vicende alle quali andò soggetto l’archivio del Comune di Trieste, i cui documenti, un po’ per opera del tempo ma più per opera degli uomini “sono monchi, ridotti a frammenti, con larghe e spesse lacune”. La Vicedomineria – ad esempio – che custodiva gli atti civili “aveva subito manomissioni parziali nel 1419, e una manomissione totale nel 1469; le scritture ivi depositate rubate ed asportate”. All’epoca in cui il Cavalli scriveva così, si conosceva bene quanto era capitato al Kandler, il quale aveva “fermato nel porto una barca piena di quelle carte, destinate al macero di Fiume”. Cosa di cui il “grande” Kandler aveva ben ragione di compiacersi. Vera sì, indubbiamente, ma piuttosto semplicistica se riferita al Cavalli, per la valutazione delle sue propensioni erudito-archivistiche. Quasi una excusatio di soccorso!

Certo il lavoro su Commercio e vita privata, al di là dell’erudizione che rivela e del “quadro” socio-economico-finanziario cui allude, ci rende un Cavalli indubbiamente “minore” rispetto al Rossetti e al Kandler. Piuttosto ‘alla lontana’ può far pensare al Pompeo Molmenti, autore di una Storia di Venezia nella vita privata dalle origini alla caduta della Repubblica (opera di grande successo negli anni nei quali anche il Cavalli operava) o al Giuseppe Caprin del Trecento a Trieste, libro molto gradito (sono gli anni attorno al 1897) ai triestini per l’idea della storia della loro città in età comunale. Certo Molmenti e Cavalli delineavano dei quadri piacevoli, ma aveva ancora da affermarsi un tipo di storia che facesse centro sulla realtà economica e fiscale di un’entità geografico storica (fuori dalle mere pubblicazioni di documenti tipici per un approccio non troppo impegnativo alla interpretazione critica). Kandler ‘andava’ meno, e Gino Luzzatto, grande studioso veneziano, non si era ancora affermato come il “maestro”. Sono le ragioni per le quali – in un ipotetico confronto – il Cavalli appare come studioso di statura minore, come si è avuto occasione di affermare manca cioè di capacità di sintesi.

Insomma, si mantenga pure la definizione di “minore” per il Cavalli erudito e storico, ma lo si legga come “minore” di qualità. Questo riconoscimento gli compete! Del resto, oggi, un confronto oggettivamente valido, se proprio lo si deve fare, è possibile: è appena uscito alla stampe per la serie di “Fonti e studi per la storia della Venezia Giulia” l’ottimo lavoro di Renzo Arcon I quaderni dei Camerari del Comune di Trieste (Trieste, 2000)!

Giulio Cervani